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Il
diabete di tipo 2, malattia cronica i cui casi sono triplicati in pochi decenni, è una patologia da cui
non si guarisce, ma che si può controllare e, cosa ancora più importante, prevenire con lo stile di vita. Rispetto al
diabete di tipo 1, o giovanile, in cui i livelli di glucosio restano elevati nel sangue (iperglicemia) perché le cellule beta del pancreas non secernono insulina, il
tipo 2, o
non insulino-dipendente, è legato a una sorta di intolleranza all’insulina da parte delle cellule che non assorbono il glucosio presente nel sangue.
Definito dall’
Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) un’“epidemia”, il diabete, secondo la
International Diabetes Federation, oggi interessa
425 milioni di persone nel mondo, ma altri 352 milioni sono a rischio di ammalarsi. Alla luce di questi numeri si può praticamente assumere che il diabete riguardi un abitante del pianeta su 10. Al di là del dato in sé, ciò che preoccupa particolarmente è che
il valore è il triplo di quello registrato negli anni Ottanta. Si stima che ogni sei secondi, nel mondo, una persona muoia a causa del diabete che, come malattia cronica, comporta la presenza di altre complicanze, soprattutto a
livello cardiovascolare.
Un aumento simile di casi si riscontra, purtroppo, anche in Italia. Secondo le ultime stime del 2017 soffrono di diabete circa
3,4 milioni italiani (5,7% della popolazione): un milione in più rispetto al 2001. Il dato però ancora più inquietante è la stima che
2,5 milioni di italiani
non sappiano di avere la malattia e la scoprano quando sono ricoverati per un problema cardiovascolare grave. Ogni giorno, in Italia, muoiono 40 persone per infarto e 20 per ictus legati al diabete.
Preoccupa in modo particolare l’abbassamento dell’età media della diagnosi. Di solito il diabete era riscontrato in persone di mezza età o anziane, pertanto era definito anche diabete senile. Negli ultimi anni, invece, è
diventato comune anche in giovani, adolescenti e persino bambini sovrappeso e obesi. Non dando sintomi particolari, il diabete può essere
diagnosticato anche
dopo dieci anni dall’insorgenza. Rispetto al tipo 1, che interessa circa il 10% di tutti i casi, il diabete di tipo 2 può essere
prevenuto intervenendo sui fattori di rischio che poi, a ben guardare, sono gli stessi anche per le altre patologie croniche che spesso accompagnano il diabete: obesità, malattie cardiocircolatorie, cancro, broncopneumopatia cronica ostruttiva. Per capire l’impatto di queste condizioni, basta ricordare che circa il 40% della popolazione italiana ha una
malattia cronica (24 milioni di persone) e la metà (12,5 milioni) ne ha più di una. Le malattie croniche, come riferisce l’OMS, sono responsabili del 71% della mortalità a livello globale, ma si possono in buona parte prevenire svolgendo attività semplici come
ridurre il consumo di cibi confezionati e ricchi di grassi,
camminando mezz’ora al giorno, facendo
attività fisica, come
andare in bicicletta.
Uno studio danese, a cura dei ricercatori della
Syddansk Universitet, ateneo della Danimarca Meridionale, ha monitorato per alcuni anni quasi 25mila uomini e 28mila donne tra i 50 e i 65 anni, in particolare correlando il livello di attività fisica all’alimentazione. L’intento della ricerca era validare la prevenzione del diabete di tipo 2 attraverso gli spostamenti quotidiani in bicicletta. Senza alcun intento agonistico. I risultati sono ben evidenti: pedalare riduce del 20% il rischio di ammalarsi di diabete e soprattutto allontana la sindrome metabolica, anche cominciando ad andare in bici oltre i 50 anni. Gli effetti benefici emergono indipendentemente da altri fattori, come alimentazione e problemi di peso.
La bicicletta funziona contro questa malattia perché attiva il 70% della nostra massa muscolare, posizionata negli arti inferiori. Non è un’attività traumatica, ma un movimento mediato dal mezzo e uniforme, senza alcun carico sulle articolazioni. Ecco perché un’attività blanda come la bicicletta può influenzare positivamente questo processo. Se un diabetico si misura la glicemia prima e dopo una bella pedalata vede la differenza: il valore scende. Ma quanta bici è da prescrivere? Un’ora tutti i giorni, che corrispondono a 18 chilometri in pianura. Non essendo in Danimarca, in città come Copenhagen che vantano piste ciclabili ben protette dalle auto, si può pensare anche alla bici da camera, con una perdita di massa grassa di 1,2 chili al mese, lasciando invariata l’alimentazione. La bici si può sostituire con 4-5 km di camminata al giorno, a passo sostenuto ma senza affaticamento respiratorio: per capirlo è sufficiente essere in grado di parlare normalmente mentre si cammina. Bici e camminate di buon passo migliorano anche la prognosi dell’ipertensione, con minore necessità di farmaci: anche la pressione sanguigna è infatti sensibile all’attività aerobica.
Il diabete riduce di 6-7 anni l’aspettativa di vita
Una diagnosi di diabete all’età di 40 anni può
ridurre l’aspettativa di vita di circa 6 anni negli
uomini e di circa
7 anni nelle
donne a causa delle complicanze: il 53% dei decessi in chi ha questa patologia è dovuto a malattie cardiovascolari. Questi sono alcuni dei dati presentati nel Rapporto del
12th Italian Diabetes Barometer Forum che si è svolto a luglio a Roma.
Nel mondo, secondo i dati dell’iniziativa “
Global Burden of Disease” dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, nel 2017 l’
iperglicemia è stata responsabile di
6,53 milioni di decessi. In dieci anni è passata ad essere dal sesto posto tre le cause di morte, al terzo fra gli uomini e al secondo fra le donne, con un aumento di circa il 27% dei casi. Questa tendenza negativa è evidente anche per quanto riguarda gli anni di vita persi ponderati per disabilità, che sono aumentati del 25,5% rispetto al 2007, superando così i 170 milioni. È importante ricordare che la prima causa di morte a livello mondiale, per entrambi i sessi, è l’
ipertensione arteriosa e l’
eccesso ponderale è la quarta fra gli uomini e terza fra le donne. Entrambe le condizioni sono spesso presenti nella maggioranza delle persone con diabete.
In Italia, secondo i dati Istat del 2017, a fronte di una prevalenza media di
malattie cardiologiche tra gli
over 45 pari al 7,5 %, quella tra persone con diabete è più del doppio: il 17,1%. Si tratta di un problema che interessa soprattutto gli anziani, quindi destinato a crescere in termini assoluti con l’invecchiamento della popolazione, anche se, proprio per l’aumento dei bambini in sovrappeso (il 30% dai 6 ai 16 anni) è un fattore che non va sottovalutato.
Impatto socio-economico del diabete
Oltre a causare la
morte di quasi
tre quarti della popolazione globale, le malattie croniche incidono per circa l’
80% dei costi sanitari a carico del Sistema Sanitario (SSN). Il diabete, secondo il Ministero della Salute, assorbe il
15-20% delle risorse sanitarie. Il costo pro capite di una persona con diabete è triplo rispetto a quello per una persona sana. La maggior voce di spesa è data proprio dai ricoveri per complicanze croniche, in primis per
patologia cardiovascolare. Se si considera che l’
85% dei pazienti ha almeno
una complicanza, si capisce come il costo medio annuo per paziente, dai circa 1.300 euro, può arrivare a
7.000 euro, quando ci sono quattro patologie concomitanti (comorbidità). Come dimostrano vari studi, anche se le malattie croniche, come il diabete e le malattie cardiovascolari, si possono prevenire con lo stile di vita si continua a spendere l’
80% delle risorse in cure, mentre
in prevenzione si investe solo il 3% del budget. Il diabete è un esempio paradigmatico di questa condizione e anche di una possibile soluzione di questo gruppo di patologie. Per invertire la tendenza, bisogna agire sulle realtà che si possono modificare.
Tra i fattori di rischio c’è anche la città
Oltre a una certa familiarità, è noto che il diab

ete interessa il
44% delle persone obese o sovrappeso. L’obesità, a sua volta, è associata a malattie cardiovascolari (23% degli infarti), e al 7-41% di alcuni tipi di tumore. Ipertensione, sedentarietà e fumo sono gli altri fattori modificabili che sono all’origine non solo del diabete, ma di altre patologie croniche a carico del sistema toccherà i 6,3 miliardi. La
rapida urbanizzazione globale sta
modificando sia il
luogo in cui la gente vive sia il
modo in cui vive. A ogni latitudine, a prescindere dalla ricchezza o meno del Paese, le città offrono opportunità uniche di lavoro per aumentare il reddito, ma anche per l’offerta educativa (scuole) e l’accesso ai servizi sanitari. Le città possono però influenzare i comportamenti e aumentare fattori di rischio cardiovascolare, ma anche di pelle, occhi e reni.
Un dato di particolare rilevanza riguarda la diffusione della malattia:
due persone con diabete su tre,
vivono nelle città e nelle
aree urbane. Del resto, oggi, più della metà della popolazione mondiale (3,9 miliardi di persone) abita nelle città. Man mano che gli ambienti vanno incontro a urbanizzazione, diventano anche più obesogenici, promuovendo il
consumo di cibi ad alto contenuto calorico e spingendo a una
riduzione dell’attività fisica. Basti pensare che l’80% degli infarti si potrebbero prevenire con un’alimentazione povera di grassi e di cibo industrializzato.
Anche se la medicina ha fatto molto per controllare meglio il diabete e ridurre la mortalità, è importante ricordare che la metà dei pazienti trattati, non controlla in modo adeguato la malattia e che una morte su quattro è riconducibile al diabete. Diventa chiaro che quindi che la medicina con le
terapie farmacologiche sono parte della soluzione, ma per essere davvero efficaci nel migliorare la qualità della vita delle persone e ridurre la mortalità, si deve operare in un contesto che aiuti le persone a
ridurre i fattori di rischio.
Il diabete urbano: descriverlo per curarlo
Alla luce di questa realtà, nel 2014 è stato creato, promosso dall’
University College London (UCL) e dal danese
Steno Diabetes Center, con il contributo dell’azienda farmaceutica
Novo Nordisk, in collaborazione con istituzioni nazionali, amministrazioni locali, mondo accademico e terzo settore, il progetto internazionale
Cities Changing Diabetes che si propone di
studiare il fenomeno, suggerendo possibili risposte e correttivi. Ad oggi sono state coinvolte una ventina di metropoli nei cinque continenti. In Italia ci sono
Roma, dal 2017 e
Milano, new entry 2019. Lo studio attivato con questo progetto ha confermato che la
vulnerabilità al diabete nelle città è legato a un complesso mix di
fattori socioculturali, responsabili sia di esporre alcuni gruppi di persone a un maggior rischio iniziale di sviluppare il diabete di tipo 2 e, allo stesso tempo, di diminuire le probabilità che ricevano una diagnosi e una cura adeguate. Sono stati identificati otto temi che rendono più vulnerabile il diabete urbano, in primis
limitazioni di risorse in termini economici, di
tempo e di
formazione scolastica oltre alla
posizione geografica periferica, e che hanno effetti negativi sulla salute. Se da un canto il
cibo spazzatura (fast food o industriale) costa molto meno di frutta e verdura, il poco tempo da dedicare alla preparazione dei pasti, ma anche all’attività fisica, abbassano la possibilità di ridurre i fattori che favoriscono lo sviluppo di obesità e diabete.
Nella città di
Vancouver (Canada), ad esempio, si è visto che la
prevalenza di malattie croniche è
quattro volte maggiore nelle
persone con titolo di studio inferiore e tre volte più alta nelle
famiglie con un reddito annuale al di sotto dei 40.000 dollari canadesi (27.000 euro). Nella città di Roma, 4,3 milioni di abitanti, il numero delle diagnosi di diabete è cresciuto del 60% in 15 anni. Anche se buona parte del valore è dovuto all’aumento della popolazione anziana, solo il 15% della popolazione si sposta a piedi o in bicicletta e, cosa più sconcertante, un
bambino su quattro è
obeso o sovrappeso.
Il diabete in Italia: si conoscono i rischi, ma non si considerano

Ampliando il campo di osservazione sul piano nazionale, anche altri aspetti legati alle
diverse realtà territoriali, al grado di istruzione e più in generale alla connotazione sociale della popolazione, influenzano la prevalenza di diabete e malattie cardiache. Le regioni del Mezzogiorno (
Calabria, Molise e Umbria) sono quelle più svantaggiate e il problema è maggiormente
diffuso tra le persone con
basso livello di istruzione rispetto ai più istruiti. Queste analisi restituiscono un’immagine nitida dei legami tra invecchiamento della popolazione, condizioni sociali e condizioni di salute e ribadiscono la necessità di
interventi urgenti e diffusi. Da una recente indagine promossa dall’International Diabetes Federation (
Taking diabetes to heart) che ha coinvolto oltre 12.000 persone con diabete di tipo 2 in 130 Paesi, è emerso che, per quanto riguarda la conoscenza dei fattori di rischio, un paziente su quattro non era consapevole del ruolo svolto dall’
ipertensione e dal
sovrappeso, uno su tre ignorava che
iperglicemia,
ipercolesterolemia,
fumo ed
inattività fisica aumentano il
rischio cardiovascolare e circa uno su due non conosceva l’importanza, quali fattori di rischio, di
elevati livelli di stress, del diabete di lunga durata e di un’età oltre i 65 anni. Nel
nostro Paese, la
conoscenza dei fattori di rischio cardiovascolare sembra essere
migliore rispetto al dato internazionale. Tra i partecipanti, il 90% riconosce il ruolo del sovrappeso/obesità, l’89% dell’ipertensione, l’88 % dell’ipercolesterolemia e dell’iperglicemia. Tuttavia, percentuali importanti di pazienti ignorano il rischio associato all’inattività fisica, al fumo, a una dieta ricca in grassi e alla familiarità e circa la metà dei partecipanti non ha identificato come fattori di rischio cardiovascolare avere il diabete da più di 5 anni o avere oltre 65 anni di età.
La percezione da parte delle persone con diabete, del proprio rischio cardiovascolare sembra essere migliore in Italia rispetto al campione complessivo, dove il
46% dei partecipanti si considera a
rischio moderato/alto, contro il 36% a livello globale. Tuttavia, la percezione del proprio rischio non sembra essere commisurata alla effettiva presenza di fattori di rischio, che è risultata estremamente più elevata. Per esempio, il 73% dei partecipanti riferisce livelli elevati di glicemia, il 58% una durata del diabete di oltre 5 anni, il 56% di essere fisicamente inattivo, il 56% di essere in sovrappeso o obeso. Questi dati suggeriscono che l
e persone con diabete non conoscono appieno i fattori di rischio e tendono
a
sottostimare la propria suscettibilità ad andare incontro
a complicanze cardiovascolari. A questo riguardo risulta fondamentale inserire l’educazione sui fattori di rischio cardiovascolari come parte integrante dell’assistenza alle persone con diabete.
Siglato un protocollo italo-britannico per un impegno a livello politico
Dato che la
pianificazione urbana, le
politiche e l’
approccio culturale hanno un
impatto diretto sulla salute delle persone, rientra nel piano il protocollo d’intesa tra rappresentanti dei parlamenti italiano e inglese, che è stato siglato con l’obiettivo di studiare azioni politiche comuni. L’obiettivo comune è di s
viluppare politiche volte alla prevenzione primaria della malattia, alla
prevenzione delle complicanze, all’identificazione di
indicatori che permettano di misurare il fenomeno e valutare il successo degli interventi, che saranno sia in ambito educativo e culturale, sia organizzativo. L’aspetto fondamentale dell’intesa, tuttavia, rappresenta il tentativo di dare vita a un modello di
alleanza politica sul diabete in Europa, che possa
indirizzare le future politiche di contrasto alla malattia, le priorità di finanziamento della ricerca e, in ultima analisi, aiutino a invertire la rotta di crescita del diabete urbano. Tra le novità previste, la nuova
figura dello Health City Manager, un
professionista in grado di
migliorare il contesto urbano riguardo la salute, coinvolgendo i cittadini nelle scelte politiche e impegnando le amministrazioni nella promozione della salute dei cittadini, il tutto anche attraverso modalità di partenariato pubblico–privato.
Attenzione ai social: il 60% delle informazioni sul diabete sono false

Il
60% delle informazioni diventate virali nel web non sono attendibili (
fake news). Guidano la classifica i social network: in testa c’è
Youtube (87,5% delle interazioni). Seguono
Facebook (33,3%) e
Twitter (29,8%). Snobbate le piattaforme di news (5%) e assolutamente ininfluenti le pagine degli addetti ai lavori. È quanto rivela la
prima ricerca scientifica italiana sulle informazioni relative al diabete che si trovano in rete (promosso da Sanofi e realizzato da Brand Reporter Lab in collaborazione con l’Associazione Medici Diabetologi - AMD).
La ricerca, che elegge i social a depositari dell’informazione sul diabete, è stata effettuata tramite la piattaforma
BlogMeter e ha analizzato
133mila post a tema diabete per un totale di 11,4 milioni di interazioni complessive dal 1 gennaio al 30 settembre 2018. La
maggior parte delle fonti consultate, però, risulta
non accreditata: il 30%, per esempio, è rappresentato da
canali di salute e benessere di dubbia attribuzione, il 18% da influencer, l’8% da individui singoli. Ci sono anche
canali tematici specializzati (6%), ma spesso anche questi risultano
di scarso livello editoriale. Per trovare la prima
testata giornalistica si deve scorrere la classifica fino al
39° posto. I
contenuti prodotti da esperti o operatori sanitari sono
praticamente assenti dalla lista.
Tra i primi
100 fatti espressi nei post più virali,
60 sono completamente
errati dal punto di vista medico-scientifico, 8 sono parzialmente veri e solo 32 attendibili. Nel disorientamento generale, dagli esiti infausti sulla salute pubblica, il web, e in particolare i social, confermano il loro grandissimo potenziale informativo. Un
potenziale che
le istituzioni e gli addetti ai lavori dovrebbero imparare a sfruttare, potenziando la loro presenza e fornendo agli utenti gli strumenti per interpretare i contenuti online e a discernere le informazioni attendibili da quelle che non hanno validità scientifica.
Di seguito l'elenco delle Strutture Sanitarie che ci hanno dichiarato la loro specializzazione in "
Diabete Mellito". L'elenco non è esaustivo di tutte le strutture sanitarie che se ne occupano.