
A frenare l’avanzata del Coronavirus potrebbe essere un vaccino per la
tubercolosi (tb) messo a punto un secolo fa. A spiegare il perché di questa nuova via per la lotta al COVID-19 è
Renzo Scaggiante infettivologo già esperto in malattie tropicali presso l’
Azienda Ospedaliera-Università di Padova e attualmente direttore del
centro Malattie Infettive dell’Ospedale di Belluno.
In Australia, Olanda, Germania e America stanno partendo studi per testare l’efficacia del vaccino per la tubercolosi (Bcg, bacillo Calmette-Guerin). Migliaia di medici e infermieri sono già stati trattati. Come mai?
Rispetto alla maggior parte dei vaccini, che creano una risposta immunitaria a un singolo patogeno, il
Bcg può anche
rafforzare il sistema immunitario innato, cioè quelle difese di prima linea che impediscono ai microorganismi di entrare nel corpo e di infettarlo.
Avrebbe quindi senso vaccinarsi contro la Tb per ridurre il rischio di COVID-19?
L’ipotesi è da provare, ma
chi ha avuto una patologia come la tubercolosi (Tb) ha un esercito di difesa, tecnicamente un clone linfocitario, pronto a intervenire in modo non specifico, ma abbastanza efficace da poter
ridurre l’attività del coronavirus. I dati mostrano che il coronavirus, pur colpendo in modo indiscriminato uomini, donne, giovani, anziani e persone di ogni etnia, solo nel 20% dei soggetti può dare i
sintomi polmonari della COVID-19, che diventano gravi nel 5%.
L’assetto del sistema immunitario sembra fare la differenza. Come ogni molecola, anche il vaccino svolge varie azioni. In medicina sono i dati a parlare: le spiegazioni possono arrivare dopo.
Avere avuto più malattie infettive potrebbe quindi essere un modo per difendersi meglio perché c’è un assetto immunitario pronto a bloccare il Covid-19?
Di per sé qualsiasi contatto con
batterio,
virus e
parassita tropicale, stimola il sistema immunitario, che prepara le truppe in allerta.
Si può
ipotizzare che
l’aver avuto tanti stimoli immunitari possa migliorare la risposta contro alcuni virus, ma gli studi sono in corso. Questo, indirettamente potrebbe spiegare perché, ad esempio, negli ospedali siano
pochi i ricoveri di migranti e africani.
Il virus quando trova un ospite che non ha anticorpi, agisce indisturbato.
Se però il sistema immunitario è più pronto, come quello di un bambino, fatica a replicarsi. Nel caso di un
anziano, in cui la
difesa è più rallentata, causa
danni più gravi. Se poi l’anziano vive
in comunità, il contagio è ancora più
facilitato, come purtroppo testimoniano le centinaia di decessi nelle residenze per anziani.
Paradossalmente, si potrebbe azzardare che soffrire di malattie autoimmuni, avere un sistema immunitario iper-reattivo, potrebbe ridurre il rischio di sviluppare COVID-19?
Teoricamente
non si può escludere, ma conosciamo da pochi mesi questo coronavirus e anche sulle cure ci stiamo assestando.
A proposito di cure: sembra quasi che anche in questo caso sia più efficace un vecchio antimalarico che un moderno antivirale. Cosa ne pensa?
L’Agenzia italiana del farmaco (
AIFA) ha avviato studi per testare vari farmaci che hanno dato qualche risultato nel
ridurre l’attività del coronavirus in test di laboratorio. Si tratta di
anti AIDS, sviluppati per il virus HIV, ma anche di nuovi antivirali messi a punto per
Ebola e
SARS. È comunque vero che, dopo aver rispolverato un antimalarico come la clorochina, in questi giorni l’AIFA ha approvato l’impiego di
ivermectina, un vecchio
antiparassitario indicato per la
scabbia e già utilizzato contro i virus HIV,
Zika,
Dengue,
West Nile e
influenzali.
Quali terapie stanno dando risposte clinicamente più importanti?
Sul fronte dei farmaci è più chiaro che
il tempo di somministrazione può fare la differenza.
Il
tocilizumab - usato per l’
artrite reumatoide perché riduce l’infiammazione bloccando l’interleuchina 6, sostanza coinvolta nel
danno polmonare causato dal Covid-19 - deve essere dato
in una fase specifica della malattia. Somministrato precocemente, infatti, peggiora la situazione. Dato in fase avanzata, rischia di essere poco efficace.

Discorso simile anche per gli
antivirali che devono essere assunti
all’esordio della malattia per bloccare la replicazione del virus, quando, tra l’altro, è più facile il contagio che, come è noto, può avvenire anche prima della comparsa dei sintomi e anche quando si sono sviluppati gli anticorpi.
Il coronavirus è insidioso anche per chi, dopo il tampone positivo, si negativizza: come mai?
La maggioranza dei virus dà un’immunità che dura per tutta la vita,
ma altri, come l’
HIV, dopo il contagio,
non producono anticorpi protettivi (neutralizzanti). La speranza è che il Sars-Cov2 sia come la maggior parte dei virus, ma lo scopriremo nel tempo.
I test sierologici, quelli in grado di individuare la presenza di anticorpi specifici per il Covid, non sarebbero quindi utili?
I
test sierologici attualmente disponibili sono ancora in via di validazione per la capacità di
individuare gli anticorpi specifici per il COVID-19 potrebbero non essere sufficienti per definire l’impossibilità di un soggetto di reinfettarsi e di non trasmettere più il virus. Anche per questo,
l’immunità acquisita da altre malattie infettive, o da un vaccino per la Tb, potrebbe fare la differenza.
Fonte foto: Profilo LinkedIn Renzo Scaggiante