Trapianto di cellule staminali ematopoietiche:
in cosa consiste e quando vi si ricorre
Intervista al Dott. Fabrizio Carnevale Schianca, Divisione Universitaria di Oncologia Medica dell'Istituto di Candiolo

Il
trapianto di cellule staminali ematopoietiche (CSE) è una strategia terapeutica nata alla fine degli anni ’60 del secolo scorso per
curare alcune
malattie oncologiche (a cominciare dalle
leucemie acute) che originano dal midollo osseo. Questo “organo”, contenuto all’interno delle nostra
ossa, svolge un ruolo fondamentale per l’equilibrio vitale: produce le
cellule del sangue che hanno il compito di
ossigenare i vari organi, difendere il corpo dalle infezioni e garantire il mantenimento della fluidità del sangue oltre che la capacità di fermare eventuali emorragie. Conosciuto anche come
trapianto di midollo osseo, il suo obiettivo è la
guarigione completa del paziente. Ce ne parla il Dott.
Fabrizio Carnevale Schianca, Divisione di Oncologia Medica dell'Istituto a carattere scientifico di Ricerca e Cura sul Cancro di Candiolo.
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In cosa consiste il trapianto di cellule staminali ematopoietiche?
Il trapianto di CSE, a differenza di tutte le altre procedure trapiantologiche impiegate in medicina,
non è una
procedura chirurgica ma consiste nell’
infusione nel sangue del paziente di cellule staminali emopoietiche. Questa strategia terapeutica è stata introdotta in medicina sul finire degli anni ’60 del secolo scorso per curare alcune malattie oncologiche che originano proprio dal midollo osseo,
leucemie acute in primis. All'inizio si basava sul presupposto che tali patologie potessero essere curate attraverso dosi molto alte di
chemio o
radioterapia, le quali comportavano però una tossicità molto alta nei confronti delle cellule staminali sane. Era necessario quindi disporre di una riserva di cellule da infondere ai pazienti dopo il trattamento chemioterapico affinché il midollo osseo potesse tornare a svolgere la sua funzione di organo produttore di cellule del sangue dopo un periodo di circa 3 settimane.
Secondo la sorgente delle cellule staminali, che possono
provenire dal paziente stesso o da un donatore, si distinguono
due tipologie di trapianto di CSE:
- Autologo;
- Allogenico.
Il concetto di
trapianto (soprattutto per quanto riguarda il trapianto allogenico) si è
evoluto nel tempo: dall'idea di sostituire un organo danneggiato con uno sano si è passati a una strategia la cui forza risiede nell'
azione antitumorale estremamente efficace delle
cellule staminali del
donatore contro le
cellule leucemiche del
paziente (magari risultate resistenti alla chemioterapia). L'effetto di questa azione, infatti, si è rivelata di
lunga durata.
Il
percorso terapeutico del trapianto di CSE si suddivide in
diverse fasi:
- Una terapia di preparazione chiamata “ciclo di condizionamento”, caratterizzata dall’impiego di chemioterapia ad alte dosi, seguita da una fase di reinfusione;
- E da una di “attecchimento” del nuovo midollo (in cui il nuovo midollo osseo si sviluppa lentamente). Le cellule staminali infuse, allora, si differenziano e riparano il danno provocato dalla chemioterapia.
Per quali malattie può essere preso in considerazione il trapianto di CSE?
Il
trapianto allogenico può trovare indicazione nella cura delle
leucemie acute (sia mieloidi che linfoblastiche), delle
sindromi mielodisplastiche (o mielodisplasie) e di alcune
forme di
malattie onco-ematologiche di tipo
cronico (malattie mieloproliferative). Viene, inoltre, impiegato con successo nella cura di alcune forme di cattivo funzionamento del midollo osseo (aplasia midollare) e, in
età pediatrica, di alcune tipologie di immunodeficienza congenita. Continua ad avere un ruolo, inoltre, nel trattamento di alcune forme di
malattia linfoproliferativa (in caso di ricaduta in alcuni tipi di
linfomi).
Il
trapianto autologo, invece, rappresenta una terapia ancora insostituibile alla
diagnosi nel
Mieloma Multiplo e in caso di ricaduta di malattia in alcuni tipi di
Linfoma. In età pediatrica e nel giovane adulto continua ad avere un ruolo in alcune forme di tumore solido (Sarcoma di Ewing, Tumori germinali del testicolo,
Neuroblastoma).
Qual è l'obiettivo del trapianto di cellule staminali ematopoietiche? E quale il meccanismo di azione?
L’
obiettivo del trapianto di cellule staminali emopoietiche è la
guarigione del
paziente, che ad oggi si verifica in una percentuale discreta di casi, ma non ancora in tutti.
Il trapianto va inteso come una
tappa di un percorso terapeutico più ampio: affinché possa essere efficace, infatti, è necessario che il paziente sia in uno
stato di controllo della malattia, per cui servono altri
trattamenti.
Nel trapianto di CSE coesistono almeno
due diversi tipi di terapia: accanto all’azione esercitata dalle alte dosi di chemio o radioterapia, si ha quella esercitata dalla cellule del
sistema immunitario del donatore (linfociti), che rimangono attive nel paziente per molto tempo.
La constatazione da parte dei clinici che l’efficacia a lungo termine dipenda da questa azione immunologica (“azione del trapianto verso il tumore” ovvero “graft versus tumor effect”) ha reso il trapianto di
cellule staminali una vera e propria “piattaforma” per lo
sviluppo di una
terapia cellulare immunologica: questo aspetto è diventato progressivamente il cuore della procedura. Un'azione sempre più precisa ed efficace è la via per aumentare la percentuale dei guariti tra i pazienti sottoposti a trapianto.
Ci sono effetti collaterali?
Il
trapianto di CSE è una
strategia complessa. Nel corso degli anni la sua
tossicità è stata molto
ridimensionata, ma alcune complicanze possono inevitabilmente insorgere. Il rischio aumenta, in particolare, nella fase in cui il midollo non funziona ancora in modo ottimale: il paziente, in questo frangente, ha poche difese e può sviluppare
episodi febbrili ed infettivi che devono essere tempestivamente riconosciuti e trattati. Inoltre, il
trattamento chemioterapico, nella fase
preparatoria, può determinare delle tossicità in
diversi organi.
Cos'è la malattia del trapianto contro l'ospite?
La
malattia del trapianto contro l’ospite è una
complicanza immunologica che si può presentare in caso di trapianto allogenico.
Può succedere che le cellule del sistema immunitario del donatore, sebbene selezionate per essere il più compatibili possibile con quelle del paziente (compatibilità del sistema HLA), una volta infuse, riconoscano l’organismo del paziente come “estraneo” e organizzino una reazione contro di esso. Sono tanti gli
organi presi di mira in questo caso, ma i più colpiti sono la
cute, il
sistema gastrointestinale e il
fegato.
A seconda che tale complicanza si sviluppi entro 100 giorni dal trapianto o successivamente, si distinguono una
forma acuta e una
forma cronica di malattia.
Per limitare questa complicanza, tutti i pazienti sottoposti a trapianto assumono per un certo periodo (fino al raggiungimento di una reciproca tolleranza) una terapia farmacologica che permette di controllare il sistema immunitario.
Questa è stata per lungo tempo la complicanza più temuta in caso di trapianto allogenico. Difficile da gestire specialmente nelle forme più gravi, negli ultimi anni la capacità di controllo della patologia è cresciuta notevolmente e il suo impatto negativo si è molto
ridotto.
Tra gli obiettivi a cui si guarda c'è quello di ridurre la tossicità?
Stiamo vivendo anni di
grandi innovazioni: si lavora per aumentare l'efficacia di tutte le terapie oncologiche, per renderle più precise nell'azione e sempre meno tossiche. Ciò vale anche per il trapianto. Grazie alle conoscenze acquisite sui meccanismi immunologici si è riusciti a ridurre molti effetti collaterali legati a questa procedura.
Questo risultato si è ottenuto grazie al
continuo progresso farmacologico, che rende disponibili molecole sempre più attive, ma anche mediante un uso nuovo di vecchi farmaci. È il caso della
Ciclofosfamide, adottata in diversi centri (compreso il nostro): vi si ricorre non più prima del trapianto ma a 3 giorni di distanza. In questo modo risulta efficace oltre che contro la patologia ematologica anche contro la malattia del trapianto contro l’ospite. Questa strategia ci ha consentito di ridurre in modo significativo la percentuale di complicanze e di migliorare conseguentemente la qualità di vita dei nostri pazienti.
Quali sono le prospettive future di questa terapia?
Per rendere il trapianto ancora più
efficace sono
due le direzioni da seguire:
- Da un lato, puntare a governare la reazione del sistema immunitario contro il paziente portando il rischio di mortalità della procedura sotto al 5% (oggi è intorno al 10-15%);
- Dall'altro aumentare la capacità di dirigere in modo selettivo le cellule del donatore contro le cellule tumorali.
Al riguardo, l’introduzione negli ultimi anni delle cellule CAR (linfociti in grado di attaccare selettivamente alcune targhe specifiche presenti sulle cellule tumorali) può rappresentare una possibile via. Anche il grande sviluppo della
terapia vaccinale che si è avuto in concomitanza con la diffusione della
pandemia da SARS-CoV-2 potrebbe rappresentare una linea di ricerca clinica molto interessante.
Se riusciremo a
centrare questi
due obiettivi, il trapianto di cellule staminali emopoietiche diventerà una strategia terapeutica progressivamente più
efficace ed
estendibile ad una platea
sempre più
ampia di pazienti.
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