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Universale e più antica della parola,
la musica può curare. Le potenzialità terapeutiche del suono erano già note a
Platone e
Aristotele: il dio Apollo era la divinità della musica e della medicina.
Solo di recente, però, complice anche l’
esigenza di individuare approcci terapeutici alternativi ai farmaci, soprattutto per malattie neurologiche e psichiatriche, è cresciuto l’interesse della medicina ufficiale nei confronti della musica. Mentre sono in aumento gli studi scientifici sulla terapia musicale, nel tentativo di individuare suoni terapeutici anche la
tecnologia ha un ruolo non secondario. Sono in fase di sperimentazione
algoritmi in grado di emettere suoni per curare specifiche condizioni fisiche: dallo
stress, alle
demenze, al
dolore. Ecco perché potrebbero funzionare.
La musica è un linguaggio universale
L’
universalità dei suoni musicali è stata provata scientificamente in uno
studio recente pubblicato su Science. Si tratta di uno dei lavori più ampi e completi sulla musica mai effettuati. Gli autori hanno considerato oltre un secolo di
ricerche etnografiche e etnomusicologiche in 315 culture arrivando alla conclusione che, in relazione a uno stesso contesto o funzione (situazioni formali, incitamento, riti religiosi) tutte le musiche del mondo si assomigliano perché hanno dei tratti comuni.

In altre parole, la musica pervade la vita sociale in modo simile in tutto il mondo: ninne nanne, canzoni d’amore o d’incitamento alla guerra, hanno caratteristiche comuni in tutte le culture. Insomma, la cultura umana è costruita su blocchi psicologici comuni ovunque nel mondo, che si traducono in una sorta di grammatica musicale. I risultati non stupiscono quanto già indicato anche da
Steven Mithen, secondo cui la musica è la prima forma di linguaggio in quanto si pone come protolingua di un linguaggio universale che nasce dal canto.
Come si legge nel libro
Neuroscienze cognitive della musica. Il cervello musicale fra arte e scienza di
Alice Mado Proverbio, professoressa associata presso il
NeuroMi-Milan Center for Neuroscience dell’Università di Milano-Bicocca, già gli ominidi utilizzavano il canto “per comunicare informazioni, esprimere emozioni e comportamenti in altri individui. Dal punto di vista evoluzionistico,
la capacità di cantare precede quindi
la capacità di parlare articolando i fonemi”. Del resto, come fa notare la professoressa, la musica è originaria e la sua universalità non può prescindere dal riferimento a quel ritmo primordiale o protosuono che l’essere umano percepisce nell’epoca prenatale. Già
Groddek, contemporaneo di Freud, nel 1925 sosteneva senza alcuna prova scientifica che, nel periodo prenatale, il feto è immerso nel
ritmo regolare del cuore materno e del proprio, mettono in luce i mezzi di cui si serve la natura per infondere profondamente nell’uomo il senso della musica. Come scrive Proverbio, “la musica è essenzialmente ritmo e cadenza e, in quanto tale, si trova ancorata nelle più grandi profondità dell’umano” ed è, quindi, anche molto
soggettiva. In alcuni studi di
neuroimaging, come la risonanza magnetica funzionale, si è osservato che
il cervello di un bambino appena nato è già specializzato per la codifica di suoni musicali consonanti.
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La musica è un piacere: dipende dalla dopamina

Grazie alla tecnica del neuroimaging si è ricostruito il tragitto straordinario che compie la musica nel
sistema nervoso.
Dall’
orecchio, infatti, le note raggiungono l’
ippocampo, che è la sede della
memoria e dei
ricordi.
A questo livello le vibrazioni musicali, già trasformate
da energia meccanica in energia elettrica, vengono tradotte in molecole, cioè messaggi chimici complessi che raggiungono, attraverso i neuroni, la
corteccia frontale dove si conservano le informazioni musicali precedentemente archiviate.
Semplificando, tali dati già presenti nella corteccia frontale si integrano alle altre informazioni musicali contribuendo alla
percezione cosciente della musica.
Diversi studi hanno evidenziato che l’ascolto di una canzone, a livello neurofisiologico, comporta il rilascio di
dopamina, il neurotrasmettitore responsabile della
sensazione di piacere che si manifesta con un meccanismo di ricompensa, costituito da due fasi:
- In un primo momento, quello prima dell’ascolto, prevale l’attività dei neuroni del nucleo caudato (parte del corpo striato coinvolto nei meccanismi di ricompensa e nel controllo del movimento);
- Nella seconda fase, la risposta emotiva suscitata dall’ascolto è dovuta all’attivazione delle cellule del nucleo accumbens, coinvolto nelle sensazioni di piacere e stimolato dalle droghe euforizzanti, dal sesso, dal cibo e, naturalmente, dalla musica. L’ascolto di un brano familiare, come hanno provato vari studi, è direttamente collegato a un maggiore incremento dell’attività elettrodermica considerata un indicatore obiettivo di eccitazione emotiva.
Questo dato, oltre a sancire definitivamente l’
ufficialità del carattere oggettivo e scientifico della neuromusicologia, apre contemporaneamente all’attività legata al vissuto emotivo del soggetto. Memoria, suoni e affetti sono dunque legati insieme nell’
immaginario dell’inconscio. In base a questo principio si spiega perché alcuni brani accendano emozioni particolari in alcune persone e non in altre e perché il canto, come la ninna nanna, possa rilassare o invece favorire il risveglio emotivo o la calma.
La musica come medicina e come terapia

I risultati degli studi scientifici, in corso da oltre cinquant’anni, danno ragione del ruolo che la musica può avere, grazie alla componente di ritmo e sincronizzazione, nella cura di alcuni
disturbi del linguaggio come la
dislessia, ma anche nella
riabilitazione di
malattie neurodegenerative come il Parkinson.
Il semplice
ascolto della musica può essere usato per scopi medici (
music medicine), ma non va confuso con la musicoterapia.
Nel primo caso l’ascolto di alcuni brani musicali può essere fatto
a domicilio,
non richiede la presenza di un terapeuta, ed è molto influenzato da aspetti culturali e dai gusti personali. La
musicoterapia vera e propria (
music therapy) si basa invece sul
rapporto musicoterapeuta-paziente e sull’
intervento attivo di entrambi, anche attraverso l’uso di semplici strumenti musicali (in genere,
percussioni).
Sono numerose le patologie in cui la musicoterapia può avere un ruolo. Tutto dipende dall’obiettivo. La musica, o meglio, alcune componenti musicali possono
migliorare aspetti relazionali, funzioni esecutive, la memoria e l’attenzione, il coordinamento motorio, lo stress, la capacità di prevedere e anticipare le azioni degli altri o la capacità di usare degli strumenti, oltre ad agire sulla connettività tra aree lesionate.
Quello che la musica può curare. Le evidenze scientifiche
Studi randomizzati controllati hanno già registrato gli effetti dell’ascolto della musica in varie patologie, soprattutto in campo neurologico, dalle demenze alla
Sclerosi laterale amiotrofica (Sla), dalla
fibromialgia al
Parkinson, dalla
depressione all’
autismo, passando per gli esiti di un
ictus, disturbi emotivi (ansia e depressione), fino alla
percezione del dolore. A tale proposito, una
ricerca pubblicata su The Lancet conferma l’efficacia della musica nel
ridurre l’ansia, nell’
attenuare il dolore post-operatorio e nel
migliorare il recupero generale.
Nei disturbi cognitivi legati al
linguaggio e alla
memoria, come nel caso della demenza, ma anche in presenza di
problemi relazionali, una
revisione Cochrane conclude che un intervento terapeutico basato sulla musica può
ridurre i sintomi depressivi e migliorare il comportamento.
In pazienti con cancro, una
review della Cochrane Collaboration sull'autismo ha confermato che la musica migliora la qualità della vita perché
riduce l’ansia, la stanchezza (fatigue) e l’uso di analgesici.
A proposito di disturbi relazionali, come nel caso dell’autismo, il gruppo della
Cochrane conclude che la musicoterapia, oltre a
migliorare la qualità della relazione genitore-bambino, ha effetti positivi sulle
capacità emotive, sociali, interattive e comunicative non verbali.
L’algoritmo scrive la musica che cura

La semplice differenze tra una ninna nanna melodica per un neonato e un brano ritmato adatto a un parkinsoniano indica che
ci sono suoni differenti per obiettivi e funzioni specifiche.
La musicoterapia, se vuole finalizzare la musica per uno specifico obiettivo terapeutico, punta quindi a
semplificare il suono, a ridurre i parametri musicali e individuare quelli adatti allo scopo. In questo, la tecnologia e l’intelligenza artificiale sono alla base della musica algoritmica, una sorta di rivoluzione che è già in corso.
È in sperimentazione, al
Maugeri di Pavia un algoritmo, il
Melomics-health, per mettere a punto setting scientificamente validati per produrre
stimolazioni musicali mirate per la modulazione di funzioni motorie, emotive e cognitive. Sono brani assolutamente inediti, non riconducibili a nessuna melodia nota, distanti da componenti culturali, per niente evocativi e nemmeno esteticamente belli, ma in grado di
stimolare particolari aree del cervello e controllare disturbi connessi a patologie complesse come la
fibromialgia o al dolore.
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Centri specializzati in Fibromialgia
Il parere dell'esperto
Intervista al prof. Alfredo Raglio, responsabile del laboratorio di ricerca e musicoterapia
degli Istituti clinici scientifici (Ics) Maugeri di Pavia
Quando l’ascolto della musica diventa terapeutico?
La musica influenza lo sviluppo del cervello a vari livelli, sia corticale, sia sottocorticale cioè per aspetti cognitivi ed emotivi. Si tratta però di capire come declinare il termine musica e a chi questo può essere rivolto come intervento potenzialmente terapeutico.
Non tutta la musica fa bene per tutto e per tutti. Ci sono peculiarità che agiscono più efficacemente se utilizzate nell'ambito di determinate tecniche e in particolari condizioni patologiche. La scienza circoscrive molto l’ambito di impiego.
Particolarmente interessante è l’impatto del suono nel deficit comunicativo relazionale, come l’autismo. La persona infatti si sviluppa attraverso la comunicazione sonora. Il neonato sviluppa la sua forma di comunicazione attraverso la capacità innata della persona di rapportarsi al sonoro. La madre è perfettamente in grado di comprendere l’intonazione vocale del neonato e di attribuirvi un significato. Il bambino, viceversa, capisce in base all’intonazione della madre se sta scherzando o se lo sta sgridando. Il suono è all’interno del sistema comunicativo precoce, è alla base della nostra comunicazione e del nostro sviluppo.
Quali condizioni e patologie possono trovare giovamento dalla terapia musicale?
Ascoltare la musica fa bene in generale, ma non possiamo riferirlo a specifiche patologie se non all’interno di tecniche musicali da utilizzare nella terapia. Non è solo l’ascolto, ma l’interazione musicale a fare la differenza. Le neuroscienze ci dicono che la musica familiare e prevedibile è di per sé è potenzialmente più efficace di altra musica, quindi c’è un
rapporto di soggettività.
Sul piano generale dobbiamo pensare che più le patologie sono gravi e invalidanti tanto meno la musica ha un potere curativo. Certamente però possono beneficiare della terapia musicale patologie neurologiche come quelle conseguenti a un
ictus (stroke), al Parkinson o alla
demenza.
Ci sono studi che documentano l’utilità della musica su alcuni aspetti cognitivi dello stroke e, nella riabilitazione per problemi motori. In generale influenza lo sviluppo dell’individuo. Nei bambini, è utile in presenza di disturbi dell’apprendimento o autismo. Tecniche di intervento come la
Neurologic music therapy agiscono sui piani cognitivo, motorio e sensoriale. Ci sono infatti studi sull’efficacia della musica nei disturbi del comportamento delle demenze, ma anche nelle patologie psichiatriche in particolare per schizofrenia e
depressione. Le evidenze sono numerose, ma bisogna considerare l’aspetto da trattare nella singola persona.
Esistono musiche indicate per particolari condizioni?

Credere che un brano o una canzone possano curare è un luogo comune. Il concetto di musica, quando si entra sul piano terapeutico va scomposto. Più che fare riferimento a un autore,
si deve fare riferimento a strutture musicali, che vanno al di là del brano di un autore. Quello che agisce a livello terapeutico è la struttura musicale. Possiamo dire che la componente ritmica è efficace su aspetti riabilitativi motorio e linguaggio. Nel Parkinson, ad esempio, ci sono evidenze che l’aspetto ritmico di alcune tecniche di Neurologic music therapy hanno un ruolo specifico nella
riabilitazione del ritmo del cammino. Non basta far ascoltare un brano ritmico a una persona con Parkinson per avere un effetto curativo.
Ci sono delle
tecniche di utilizzo del ritmo durante la riabilitazione del cammino, in persone con Parkinson, che migliorano questo aspetto. Si tratta di un utilizzo specifico. Il
tango ha una componente ritmica e musicale molto importante e per questo, impiegato in un certo contesto, può avere una funzione di armonizzazione del movimento in persone con disturbi motori come il Parkinson.
Esiste poi anche un impiego nei pazienti con il cancro, ma anche su un aspetto come il
dolore, che caratterizza anche questa patologia. L’intervento musico-terapeutico ha un
significato sia psicologico che fisiologico, la riduzione della percezione del dolore è di particolare attenzione per ridurre il dolore percepito.
Esistono in Italia centri in cui si pratica la terapia musicale?
Stanno aumentando le esperienze di musicoterapia in istituzioni pubbliche e private convenzionate.
Alcune istituzioni, come l’Ics Maugeri di Pavia stanno implementando a livello ambulatoriale la musicoterapia.
A Milano, all’interno di spazio Maugeri, è previsto questo servizio. Qualcosa sta cambiando, stanno nascendo delle realtà.
La tecnologia ha un ruolo nello sviluppo della musicoterapia?
Stiamo lavorando sull’impiego di musica algoritmica, cioè una musica creata artificialmente per curare. Non nasce con l’idea di essere bella, ma utile. L’algoritmo si chiama Melomics health è un progetto iniziato con l'Università di Malaga dove, con l’intelligenza artificiale, è stata creata la prima versione di questo algoritmo che poi ho sviluppato nell’ambito della salute.
Attualmente è coinvolta anche l’Università di Trieste per realizzare un algoritmo in grado di comporre musica in base all’obiettivo terapeutico. Attualmente c’è un algoritmo che aiuta il rilassamento nello stress correlato al lavoro. Lo stiamo testando su un gruppo di operatori sanitari, nella medicina del dolore e della radioterapia.